L’ADL del 27 ottobre 2022

L’Avvenire dei lavoratori

27 ottobre 2022 – e-Settimanale della più antica testata della sinistra italiana

Organo della F.S.I.S., Centro socialista italiano all’estero, fondato nel 1894 / Direttore: Andrea Ermano

Redazione e amministrazione presso la Società Cooperativa Italiana – Casella 8222 – CH 8036 Zurigo

 

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EDITORIALE

 

le parole e i fatti

 

Tra cariche di polizia contro gli studenti e agevolazioni all’uso del denaro contante non tracciabile in caso di riciclaggio, l’alleanza guidata da Meloni è assurta al potere. E ancora una volta per la prima volta assistiamo all’insurrezione delle destre contro una vittima designata: Laura Boldrini. La quale viene irrisa per essersi interrogata circa l’uso degli articoli di genere: si deve dire “il” o “la” Presidente del Consiglio? Interrogativo che non ci appare come una questione di lana caprina.

 

di Andrea Ermano

 

«La Boldrini ripassi la grammatica e legga la Costituzione», esorta “La Verità”. «L’ultima uscita della Boldrina (al femminile) è davvero esilarante. Nemmeno Totò avrebbe saputo fare di meglio», ridicolizza “ItaliaOggi”. Mentre “Libero” titola sprezzante «Boldrini e Co. Prigioniere dei loro deliri».

    Al quadretto si aggiunge la polemica di un lettore di destra che, da un sito web, accusa: «Le Murgia e le Boldrini che si aggrappano alla Treccani per attaccare Giorgia Meloni che vuole essere chiamata “il Presidente” sono le stesse Murgia e Boldrini che hanno stravolto la grammatica italiana usando la “E” rovesciata, il “3” al posto della “I” e asterischi vari».

    Più equilibrato, il sito dei vescovi italiani “Avvenire.it” soppesa il tema parlando di «Giorgia Meloni “il” o “la” Presidente. Parità o libertà di articolare». Mentre “IoDonna.it” riassume: «Giorgia Meloni sarà “il” Presidente. La Crusca “Il maschile non è un errore, è una scelta ideologica».

    In effetti, la grammatica italiana non pare consentire, di norma, che persone di genere maschile abbiano la facoltà di denominarsi al femminile.

    Nella mia vita ho potuto via via chiamarmi in certe dichiarazioni da inoltrare per esempio presso enti pubblici: “lo studente” o “il lavoratore” o “il cittadino” o “l’emigrato” o “il redattore” eccetera. Ovviamente, se io volessi o avessi voluto utilizzare uno pseudonimo o manifestare a favore della libertà sessuale (mia o altrui) avrei anche potuto e tuttora potrei firmarmi puta caso “Donna Summer”, “Giacomina” eccetera.

    Dopodiché, nella dichiarazione fiscale della Società Cooperativa che presiedo, mi pare indicato sottoscrivere l’atto come “il presidente”. Tuttavia, lo Statuto della “mia” vecchia Cooperativa (la quale porta sulla groppa quasi il doppio degli anni della Repubblica Italiana che ha per altro contribuito a fondare partecipando alla Resistenza antifascista) parla del presidente al maschile e non declina questa funzione al femminile.

    Ma non dubiterei che una presidente donna possa, invece, decidere come chiamarsi secondo il suo proprio giudizio. Non saprei documentare in qual modo si definiva Angelica Balabanoff, che pure diresse questa testata in coedizione con l’Avanti! rientrando in Occidente dopo essersi dimessa dalla funzione di “Segretaria generale” della Terza Internazionale a seguito della sanguinosa repressione bolscevica della rivolta di Kronstadt, decisa nel 1921 da Lenin e Trotzki.

    Anche per la Costituzione italiana il Presidente è un sostantivo sempre declinato al maschile. Dopodiché, l’interpretazione di una donna progressista, come la Presidente emerita della Camera, Laura Boldrini, è stata quella di declinare la Costituzione al femminile.

    Non così l’interpretazione della leader dell’MSI-AN-FdI assurta alla guida di Palazzo Chigi, nel cui sito, mentre scriviamo queste righe, si trova chiaramente confermata la scelta del maschile riferito al ruolo istituzionale, come abbiamo verificato sul sito ufficiale del governo italiano: «Il 26 ottobre, alle 13.00, è prevista al Senato della Repubblica la discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni che, intorno alle 16.30, interverrà per la replica» (vedi il sito).

    La scelta meloniana è stata stigmatizzata dall’ex parlamentare e anchorwoman Lilly Gruber: «La prima donna premier si fa chiamare al maschile, il presidente. Cosa le impedisce di rivendicare nella lingua il suo primato? La Treccani dice che i ruoli vanno declinati. Affermare il femminile è troppo per la leader di FDI, partito che già nel nome dimentica le Sorelle?».

    Per concludere su questo punto, desidero richiamarmi al quotidiano “il manifesto”, che ospita l’intervento dell’accademica Valeria Della Valle, condirettrice del Dizionario della Lingua Italiana Treccani. La quale si esprime così: «A mio parere chi rifiuta di essere definita “la presidente” o “la direttrice” ha tutto il diritto di farlo (…). Ricordo però che è dal 1987, da quando Alma Sabatini scrisse le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana per la Presidenza del Consiglio, che si continuano a ripetere le stesse cose sul femminile dei nomi di professioni e ruoli. Sono anni che le donne ricoprono cariche istituzionali, ma ogni volta che una di loro raggiunge un posto di primo piano nascono polemiche a proposito del nome con cui devono essere indicate, dimenticando che i dizionari della lingua italiana (anche quello che condirigo) registrano nomi al femminile, e che le grammatiche li segnalano come corretti» (vai al sito).

 

Non sembri una questione di lana caprina, perché alla fin fine la discriminazione inizia dai nomi, ma può poi ricadere negativamente sulle persone. La manipolazione delle parole, come scrive Marco Morosini, sta conducendo a chiamare “centro-destra” il governo più di destra dai tempi di Mussolini, mentre il “centro-sinistra” viene inversamente sospinto verso l’abbreviazione semplificatoria delle “sinistre”. Che a sua volta funge da trampolino di lancio per caricare questa parola di connotati negativi, fino a trasformarla in espressione ingiuriosa, come ai tempi di Berlusconi: le sinistre!

    La “Boldrina”! Oggi la destra italiana distorce il nome della Presidente emerita della Camera, domani chissà.

    La Nuova Autorità italiana tace, ridacchia, gira la testa dall’altra parte. Ma nella lunga storia della misoginia umana il piano inclinato può preludere al pogrom.

    Certo, martedì nel suo discorso programmatico di fronte alla Camera l’on. Meloni ha dichiarato: «Non ho mai provato simpatia o vicinanza per nessun regime, fascismo compreso. Esattamente come ho sempre reputato le leggi razziali del 1938 il punto più basso della storia italiana: una vergogna che segnerà il nostro popolo per sempre».

    E però non fu il “nostro popolo”, bensì il “duce” a promulgare le famigerate leggi del 1938 (vedi video Istituto Luce) ed è stata proprio Meloni a definire il “duce” un grande benefattore dell’Italia. Sorge, quindi, un dubbio: riuscirà la Giorgia Meloni secondo la quale “tutto quello che (Mussolini) ha fatto, lo ha fatto per l’Italia” ad accordarsi con la Giorgia Meloni secondo la quale le leggi di Mussolini “rappresentano il punto più basso della storia nazionale”?

    Ma chissenefrega: Giorgia ha sempre ragione.

    No, non si tratta di una questione di lana caprina e basti vedere come il training plurisecolare di improperi e insulti contro gli Ebrei d’Europa si riassunse in epoca fascista nella trasformazione dell’insulto allegorico sul “parassita” e lo “scarafaggio” in una precisa prassi in cui le persone venivano trattate dagli Stati totalitari d’Europa alla stregua di insetti dannosi.

    Il genio di Franz Kafka divinò nella Metamorfosi: «Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante».

    Così accadde che – dopo lunghe equiparazioni agli scarafaggi – arrivarono i volonterosi nazi-fascisti a farsene punto d’onore, nel tradurre la metafora in realtà. Fino alla deportazione e fino allo sterminio, attuato con un insetticida a base di acido prussico tristemente noto come “Zyklon B”.

    Questo è stato.

 

Non meno lunga e crudele è stata la guerra contro le donne condotta con implacabile misoginia dalla società patriarcale. Di questa persecuzione la “caccia alle streghe” ha costituito solo una orribile pagina tra le tante di cui è composto questo grande libro degli orrori.

    All’ultimo capitolo in ordine di tempo stiamo assistendo proprio in questi giorni, in diretta televisiva da Teheran, a massacri di donne e dimostranti.

    In territorio persiano secondo l’organizzazione Iran Human Rights, dal 2019 a oggi, sono state ammazzate oltre 1500 persone (vai al sito).

    Perché?

    Agli occhi della teocrazia risultano ree di non portare il velo in modo corretto, di essersi accorciate i capelli, come Mahsa Amini, o semplicemente di avere protestato contro il regime.

       

   

pubblichiamo oggi la seconda parte di un’ampia e articolata riflessione di Marco Morosini, scienziato ambientalista, docente presso il Politecnico Federale di Zurigo, ispiratore indipendente del programma M5S e attento osservatore delle dinamiche socio-politiche italiane. 

 

Marco Morosini in un’intervista alla Wiener Zeitung

 

L’OPERAZIONE MELONI (2/2)

 

Giorgia Meloni guida il governo. Da lungo tempo i media diffondono quotidianamente centinaia di fotografie, fornite dal suo ufficio stampa, che la ritraggono in pose accattivanti, molto spesso con un gran sorriso e uno sfondo di folla mentre si fa un selfie. Finora il suo programma è stata lei stessa, ma non ha mai diretto un’azienda, un assessorato, un comune, una provincia, una regione o un ministero importante. Nelle interviste su di lei le persone rispondono solitamente “Mi piace” anziché “Sono d’accordo”. Sui presupposti, i risultati e le prospettive di quella che, ormai in pieno corso, possiamo denominare “L’operazione Meloni” ho intrapreso sull’ADL del 20/10/2022 un’analisi, di cui propongo qui la seconda e ultima parte.

 

di Marco Morosini

 

L’Italia futura secondo Meloni – Nei dibattiti Meloni è pugnace e convincente. È naturale che la gente si sia domandata: “Perché non darle una chance?” Ed è qui che occorre conoscere qualcosa del suo avvenire e del suo passato.

    Nell’avvenire dell’Italia secondo Meloni ci sono parole come “Nazione”, “Patrioti”, “Difesa della Patria”, “Confini nazionali”, “Migranti irregolari” o “Clandestini”, “Tradizione giudaico-cristiana”, “Orgoglio italiano” eccetera. Poi c’è l’obiettivo di rendere l’Italia una repubblica presidenziale.

    Tra le promesse elettorali, che adesso si stanno riversando nel programma di governo, ci colpiscono:

    – un’aggressiva politica della natalità che scoraggi l’aborto e premi chi fa più figli (il modello è la politica ‘natalista’ di Viktor Orban; in progetto c’era anche il ministero della Famiglia e della Natalità, ora attribuito a Eugenia Roccella),

    l’abolizione del reato di tortura perché “impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro” (negli anni Ottanta l’MSI voleva la pena di morte),

    – la “castrazione chimica” per i responsabili di certe violenze,

    – il contrasto della “lobby LGBT“,

    – l’ottenimento più facile del porto d’armi,

    – il principio che “la difesa è sempre legittima“,

    – il “blocco navale“ davanti alla Libia contro i “clandestini”,

    – la repressione delle ONG che salvano i naufraghi, con sequestro e affondamento delle loro navi,

    – l’abolizione del reddito di cittadinanza (una legge del Movimento 5 Stelle che dà un piccolo sostentamento a quattro milioni di poveri, molti dei quali, secondo Meloni “restano seduti sul divano a fumare le canne”),

    – la riduzione delle imposte ai più ricchi, “pace fiscale“, ossia condono delle piccole evasioni fiscali.

    – la “Flat tax al 15%“ (in realtà l’aliquota del 15% dell’imposta sul reddito varrebbe solo per la parte di reddito superiore a quello degli ultimi anni).

    Nelle parole di Meloni ci sono: enfasi nazionalista, ostilità verso soggetti deboli o diversi (migranti, nomadi, omosessuali, tossicodipendenti), scherno e denigrazione per gli avversari e le categorie sgradite, tolleranza verso le violenze della polizia e dei cittadini armati che si difendono da soli, lotta alle “devianze” (tra le quali include l’obesità). Grande assenza di riferimenti alla crisi ecologica.

    Il virulento discorso del 14 giugno 2022 a Marbella a un convegno dell’estrema destra spagnola “Vox” è un esempio di alcuni di questi atteggiamenti. Queste propensioni non piovono dal cielo ma hanno radici nella mentalità che ha forgiato Meloni, una mentalità il cui imprinting non sapremmo come definire se non neofascista. Per questo è necessario conoscere il passato politico della nuova premier venuta dalla destra.

 

Neofascista a quindici anni – Meloni è cresciuta nella periferia di Roma della Garbatella. La sua grinta popolana e il suo accento romano la fanno percepire come una genuina novità, diversa dai “politici attaccati al potere” contro i quali inveisce, ma di cui ha fatto parte durante i governi Berlusconi. Fratelli d’Italia è l’attuale denominazione assunta dall’MSI, partito neofascista fondato nel 1946 da ex gerarchi e da ex militari in camicia nera.

    Una Meloni diciannovenne, in un reportage del 1996 trasmesso sulla televisione “France 3”, dichiara: «Credo che Mussolini sia stato un buon politico, vale a dire che tutto quello che ha fatto lo ha fatto per l’Italia». Faceva eco al suo capo di allora, Gianfranco Fini, il quale aveva detto che occorreva creare «il fascismo del 2000» (1988) e che «Mussolini è stato il più grande statista del secolo» (1992).

    In tema “Mussolini”, tre parenti stretti del “duce” sono stati candidati al parlamento da Fratelli d’Italia o dai partiti che hanno preceduto questa formazione politica: Alessandra e Rachele Mussolini (nipoti di Benito) e Caio Giulio Cesare Mussolini (pronipote).

    Alessandra Mussolini è stata per ventiquattro anni parlamentare neofascista, dichiarandosi «fiera del nome che porto». Da più di settant’anni gran parte del personale italiano di provenienza neofascista onora Mussolini e il suo regime, seppure con intensità decrescente. Ma riuscireste mai a immaginare in qual modo tre discendenti di Hitler potrebbero essere eletti nel Bundestag di Berlino? E figuratevi poi se si dichiarassero fieri di quel nome.

    Ecco, adesso avete un’idea dell’ambiente che ha formato Meloni dai suoi quindici anni, quando nel 1992 aderì all’MSI. Laddove la presidente di Fratelli d’Italia, assurta a Palazzo Chigi, ha più volte confermato la continuità con la tradizione dell’MSI-AN-FdI nonché l’orgoglio per il suo simbolo: la “fiamma tricolore”.

    Questa fu disegnata nel 1946 dal fondatore dell’MSI Giorgio Almirante ed è tuttora nel logo di Fratelli d’Italia. «Occorre la consapevolezza storica di ereditare una tradizione, una cultura, un’identità e un’appartenenza», ha rivendicato Meloni.

    E quando la senatrice a vita Liliana Segre, israelita milanese sopravvissuta ad Auschwitz e vittima delle atroci persecuzioni nazi-fasciste, chiese di togliere la fiamma, Giorgia Meloni rispose: «Non c’è motivo per togliere la fiamma. Rappresenta la continuità con la storia di una destra repubblicana e democratica». Quale continuità? Nella storia dell’MSI, come abbiamo visto, si annoverano criminali di guerra, collaboratori di nazisti, responsabili di attentati, torture, uccisioni, massacri e financo di un tentativo di colpo di stato contro la Repubblica Italiana.

 

Chiariamo un equivoco. Il problema oggi è il neofascismo, non il fascismo. A Meloni non si chiede conto di ciò che fece Mussolini cento anni fa. Si deve chiedere conto di ciò che il neofascismo fa oggi e di ciò che ha fatto nel dopoguerra.

    Per esempio, è del 2022 il saluto fascista eseguito durante una cerimonia pubblica da Romano Maria La Russa, esponente del partito di Giorgia Meloni, assessore regionale lombardo e fratello di Ignazio Benito Larussa.

    È stato inquietante vedere Giorgia Meloni parlare al congresso delle estreme destre CPAC del 28 febbraio 2022, tenutosi nella città di Orlando in Florida, padrone di casa Donald Trump, l’ex inquilino della Casa Bianca indagato per istigazione all’assalto armato contro il Parlamento statunitense.

    E qui ritorna alla mente il tentativo di colpo di stato organizzato nel 1970 dall’ex presidente dell’MSI, Borghese. Chi è stato Borghese? Un criminale di guerra, responsabile di stragi e torture perpetrate (contro italiani) dall’unità militare nazi-fascista “Xa MAS” (Divisione fanteria di marina decima), da lui denominata M.A.S. secondo le iniziali del motto latino Memento Audere Semper, molto in voga nel 1943 tra i dannunziani filo-hitleriani.

    Junio Valerio Borghese (1906-1974) fu condannato a dodici anni di reclusione, ma poi liberato per amnistia.

 

Un mausoleo per un ex presidente dell’MSI, criminale di guerraDopo il 1945 i criminali di guerra italiani non furono puniti, come invece avvenne a quelli tedeschi e giapponesi. È questa omertà che permette a Fratelli d’Italia di onorare ancora oggi con un monumento pubblico un criminale di guerra italiano. L’11 agosto 2012, infatti, l’allora capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, Lollobrigida, ha inaugurato ad Affile (Roma) il mausoleo “Patria e onore” in memoria del Generale Rodolfo Graziani, già Viceré d’Etiopia e poi presidente dell’MSI, ossia uno dei predecessori di Meloni durante il biennio 1953-1954.

    Perché questo monumento? Come accennato, il mausoleo è stato voluto dal ministro-cognato Francesco Lollobrigida, che ha ottenuto dalla regione Lazio 127mila euro per costruirlo. In Italia è stato praticamente ignorato, ma ha suscitato indignazione nel mondo, da Addis Abeba alla BBC al New York Times. Secondo lo storico Angelo Del Boca, massimo studioso di quel periodo, Graziani fu “il più sanguinario assassino del colonialismo italiano” durante la Guerra fascista all’Etiopia del 1935-36 che uccise 250mila africani. Decine di migliaia di civili furono avvelenati con i gas di guerra iprite e fosgene, o assassinati in massa, o fatti morire in marce nel deserto o in campi di concentramento, che di fatto furono campi di sterminio.

    Dal 21 al 29 maggio 1937 nel monastero etiope di Debra Libanos le truppe di Graziani trucidarono più di mille cristiani sospettati di appoggiare la resistenza etiope: monaci, diaconi, pellegrini ortodossi. Su Graziani si veda il film dedicato all’eroe della resistenza anticolonialista libica Omar al-Mukhtar, Il leone del deserto (1981), con Anthony Quinn, Rod Steiger e Irene Papas. Graziani fu incluso nella lista dell’ONU dei criminali di guerra, ma la richiesta di estradizione dell’Etiopia venne negata dall’Italia nel 1949. Nel 1950 fu condannato a 19 anni di carcere per collaborazionismo con i nazisti, ma fu scarcerato in pochi mesi.

    Due anni dopo Graziani era presidente dell’MSI.

    Questo approfondimento non sembri fuori luogo. Esso serve a sollevare una questione bruciante: Se l’MSI-DN-FdI si è impunemente permesso di costruire un sacrario in onore di un criminale di guerra quando era all’opposizione, cosa si permetterà ora che ha conquistato il governo?

    In molte città politici dell’MSI-DN-FdI hanno intitolato strade e piazze a personaggi del fascismo, spesso macchiatisi di delitti impuniti.

    È del 2016 la grande mostra “Nostalgia dell’avvenire” per commemorare i settant’anni dell’MSI, intitolata con il motto del suo fondatore Giorgio Almirante.

    Né è raro vedere neofascisti esibire saluti romani e simboli del fascismo, o commemorare la marcia su Roma, oppure andare in pellegrinaggio a Predappio per onorare la “Cripta Mussolini“. Basti ricordare che nel 2008 l’elezione del neofascista Gianni Alemanno a sindaco di Roma fu festeggiata sulla scalinata del Campidoglio con saluti romani, qualche camicia nera e gran sventolio di certe bandiere. E fu proprio il fondatore di Fratelli d’Italia Ignazio Benito La Russa, a ostentare e difendere il saluto fascista il 13 settembre 2017 in Parlamento. Oggi presiede il Senato della Repubblica.

 

La manipolazione delle parole – Le estreme destre e la destra italiane sono riuscite a insediare nel linguaggio nazionale una serie di manipolazioni delle parole a loro vantaggio. La più efficace è l’espressione “centro-destra” che designa l’attuale coalizione di Forza Italia con due partiti di estrema destra. Essa fu escogitata nel 1994 da Silvio Berlusconi per la sua coalizione di Forza Italia con gli indipendentisti della Lega e con “i fascisti” – come Berlusconi li chiama.

    La parola “centro-destra” è ancora usata universalmente per definire la coalizione estreme-destre-destra (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia).

    I politici e i media delle destre si autodefiniscono “centro-destra”, ma chiamano con disprezzo il centro-sinistra “la sinistra”. I media e i politici di centro-sinistra, invece, chiamano pavidamente “centro-destra” la coalizione estreme-destre-destra, adottando così il suo inganno verbale.

    Un’ulteriore manipolazione è quella del nome del partito: “Fratelli d’Italia”, infatti, è il nome ufficioso dell’inno nazionale italiano, un bene pubblico di cui i neofascisti si sono appropriati. Il risultato è che ormai quando si canta l’inno nazionale inevitabilmente si evoca il nome del partito di governo.

    Questa operazione somiglia quella di Berlusconi quando nel 1994 chiamò “Forza Italia” il suo partito, appropriandosi dell’incitamento con il quale le folle incoraggiavano negli stadi gli atleti italiani. Questi ultimi erano chiamati “gli azzurri”, fino a quando Berlusconi si appropriò anche del colore azzurro. I parlamentari del partito Forza Italia divennero da allora “gli azzurri”, la sezione femminile divenne “Azzurro donna”, la piattaforma dei simpatizzanti divenne “Spazio azzurro”.

 

La manipolazione dei numeri – Prima delle elezioni del 25 settembre quasi tutti i media scrivevano che il cosiddetto “centro-destra” aveva venti punti di vantaggio sul centro-sinistra, suscitando così l’impressione che a livello nazionale il trionfo delle destre fosse ormai certo.

    In realtà, i livelli di consenso si attestavano entrambi intorno al 45%, come avviene da decenni. L’invenzione del “20% di differenza” risultava dall’aver considerato “centro-sinistra” la solo coalizione del Partito Democratico con alcuni piccoli partiti (26% dei voti) e dall’aver trascurato, nel campo del centro-sinistra, l’esistenza degli altri partiti tra cui il Movimento 5 Stelle (16% dei voti) e altri partiti antifascisti (8%).

    Alle elezioni del 25 settembre il partito Fratelli d’Italia è stato il più votato. Tuttavia non ci sono state scene di festa né saluti romani nelle strade. La sua presidente Giorgia Meloni è quasi scomparsa dai media. Dopo avere svolto il suo ruolo sulla ribalta, ha lasciato lavorare gli artefici dell’”Operazione Meloni”.

    Perché occorreva tutta la perizia degli anziani leader delle destre per spartire i ministeri e rassicurare i media, i governi e gli operatori economici internazionali.

    Avere lasciato lavorare chi ha più esperienza è segno di saggezza di Meloni che potrebbe preludere a sorprese. Quindi, adesso staremo a vedere come andrà avanti, questa estrema destra presentatasi all’appuntamento con il governo ostentando tricolori e parole come Patria, Nazione, Orgoglio Italiano.

    Resta da chiarire come mai onora anche i traditori dell’Italia che collaborarono con l’occupazione nazista e perseguitarono la popolazione civile, torturando e uccidendo i patrioti che difendevano la libertà degli italiani.

    Due ventenni di egemonia delle destre – il ventennio fascista e il ventennio berlusconiano – hanno reso l’Italia peggiore e ne hanno compromesso la reputazione nel mondo. Se Giorgia Meloni davvero ama l’Italia, toccherà a lei dimostrare di saper fare il contrario.

 

(2/2 – Fine. Una prima versione del presente testo è apparsa sul sito di MicroMega).

     

   

SPIGOLATURE

 

Per chi suona la campanella

 

di Renzo Balmelli

 

STILE. Assieme al poeta, Giorgia Meloni si starà chiedendo per chi suona se non proprio la campana, perlomeno la campanella ricevuta da Draghi. “Non chiederlo mai” ripeteva John Donne autore del verso, “essa suona per te”. Da questo momento la prima donna al timone dell’Italia sa di essere sotto la lente del mondo e spera che lo scampanellio preluda a un piano lungo cinque anni. È un traguardo ambizioso, forse troppo, mai raggiunto da nessun governo precedente. In quest’arco di tempo la nuova premier dovrà guardarsi più dai nemici, come vedremo di seguito, che dagli “amici” determinati a non renderle la vita facile? A quanto è parso di capire il suo intervento in aula non ha risolto i dubbi sull’ipoteca identitaria che non ci appartiene. Da queste colonne il giudizio sul suo operato sarà dunque rigoroso, ma scevro dal vendicativo livore che i vincitori riservano agli avversari. Non è nel nostro stile.

 

GERUNDIO. Dissero un giorno a Montale che “mal comincia un periodo con un gerundio” usato in una sua poesia. Si vede che non tutti apprezzavano il Premio Nobel della letteratura. Da come si stanno mettendo le cose il gerundio della Meloni potrebbe essere Salvini. Un Salvini furioso, estromesso dall’agognato Viminale, e che per ripicca torna a fare lo sceriffo anti-migranti per dettare l’agenda come fosse lui il premier. Non è che non fosse previsto. Lo scenario popolato da fratelli-coltelli preannunciava sconfinamenti e invasioni di campo di ogni genere. Bastavano d’altronde le smorfie di Berlusconi, lungi dall’immagine di statista di cui si fregia, per intuire quanto siano radicati i rancori di famiglia alle spalle della leader. Già in passato la guerra contro i migranti e le Ong valse all’Italia brutte pagelle. Una sua riedizione avrebbe ricadute ancora peggiori. La domanda è se Lady Giorgia riuscirà a sciogliere i nodi all’interno di una compagine disunita che però ha plasmato di suo pugno.

 

PACE. Dall’alto della sua storia Roma non delude. Culla dei trattati europei, oggi la città adagiata sul Tevere aspira a un ruolo centrale nella ricerca della pace. La sciagurata guerra che Mosca ha dichiarato all’Ucraina fra le tante tragedie ha pure risvegliato i fantasmi della prevaricazione dell’uomo sull’uomo e causato danni incalcolabili. Dal convegno promosso dalla Comunità di Sant’Egidio si è elevato il “Grido della pace” affinché vincano i tessitori del dialogo e non i mercanti di morte. L’aggressione al popolo ucraino è una sfida all’Europa che fin dalla sua fondazione si scelse come motto e guida la celeberrima frase “mai più guerre tra noi”. E al diavolo von Clausewitz che considerava il ricorso alle armi la prosecuzione della diplomazia con altri mezzi. Non è vero e mai lo sarà.

 

ZOCCOLO. Fino all’altro giorno sulle testate della destra il presidente francese non godeva di buona stampa. Spesso gli insulti contro di lui erano da querela. Nella “grandeur” si supera questo e altro. Da Macron è partita l’iniziativa di un incontro informale che prepara il terreno per i prossimi vertici dei capi di stato e di governo che vedranno l’esordio della Meloni sulla platea internazionale. Avversari fino a ieri e da domani costretti a collaborare, l’inquilino dell’Eliseo e la new entry a Palazzo Chigi, seppur da posizioni assai distanti, hanno davanti sfide che nessun Paese può risolvere da solo. Ed ha del prodigioso come le gazzette di cui sopra in poche ore abbiano ammorbidito i giudizi lapidari sul “galletto altezzoso”. Non è un embrassons nous, ce ne vuole, ma è quanto basta per irritare lo zoccolo duro e puro dell’italica destra che si sente tradita.

 

GIRANDOLA. Tre primi ministri in meno di un anno sono un primato planetario. Che dire! Nel Regno Unito, inconsolabile orfano di Elisabetta II, le cose non vanno per il verso giusto. Carlo III, come in un capitolo dello sceneggiato “The Throne” che narra le vicende della monarchia, è stanco, provato, e i sudditi se ne accorgono. E neppure chi governa se la passa tanto meglio. Dopo una girandola di dimissioni che hanno sfibrato il partito conservatore già mal messo di suo, ora i “Tory” ripartono con Rishi Sunak, 42 anni e di lontane origini indiane, nel tentativo quasi disperato di raddrizzare la barca. Il nuovo premier arriva a quella carica sulle macerie di Boris Johnson autore dell’ennesima pantomima, e l’incoscienza fiscale di Liz Truss costretta a fare le valigie dopo 45 giorni. Fare peggio dei predecessori è quasi impossibile, tuttavia i bookmaker che misurano la temperatura del Paese sono scettici sulla durata del suo mandato. Sunak rimane un personaggio controverso, ricchissimo e lontano dal sentire della gente. E pensare che tutto cominciò con la Brexit spacciata dai sovranisti come la panacea di tutti i mali. Ora a Londra hanno scoperto la verità.

 

 

economia

 

Il significato del Nobel a Bernanke

 

“Per la ricerca su banche e crisi finanziarie”, il Premio Nobel per le scienze economiche quest’anno è stato conferito a tre economisti americani, a Ben Bernanke, già presidente della Federal Reserve dal 2006 al 2014, e ai professori Douglas Diamond dell’Università di Chicago e Philip Dybving dell’Università di Saint Louis. Nelle motivazioni si legge che essi «hanno notevolmente migliorato la nostra comprensione del ruolo delle banche nell’economia, in particolare durante le crisi finanziarie. Una scoperta importante nella loro ricerca è il motivo per cui è fondamentale evitare i crolli delle banche».  Ma c’è un “ma”

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all’economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Il fatto che Bernanke sia stato il banchiere centrale prima e dopo la grande crisi finanziaria del 2008 getta qualche dubbio sulla bontà della scelta. E fa subito sorgere un’altra domanda: perché dare loro il Nobel proprio oggi, nel mezzo di una crisi economica e finanziaria che potrebbe essere peggiore di quella appena passata?

    Il Nobel è stato assegnato per due articoli scritti nel lontano 1983. Nella loro analisi, Diamond e Dybvig avevano spiegato che le banche operano come intermediari tra i risparmi depositati e i crediti a lungo termine per le imprese. Il sistema funzionerebbe bene in tempi normali, ma, ammettevano, rende le banche vulnerabili ai rumors, alle voci circa un loro imminente collasso, che possono provocare il run,  cioè la corsa agli sportelli per ritirare i risparmi. 

    Da parte sua, Bernanke aveva studiato la Great Depression americana e globale degli anni Trenta, dimostrando come le banche in dissesto avessero giocato un ruolo decisivo nella peggiore crisi della storia moderna. Il crollo del sistema bancario spiegherebbe perché la recessione non sia stata soltanto profonda, ma anche duratura.

    Infatti, tra il gennaio 1930 e il marzo 1933, la produzione industriale statunitense diminuì del 46% e la disoccupazione crebbe al 25%. La crisi si diffuse a macchia d’olio, provocando una profonda recessione economica in gran parte del mondo. In Gran Bretagna la disoccupazione salì al 25% e in Australia al 29%. In Germania la produzione industriale si dimezzò e più di un terzo della forza lavoro divenne disoccupata. La ricerca di Bernanke mostrava che le crisi bancarie possono avere conseguenze catastrofiche. Una giusta intuizione che, però, stranamente non fu applicata nella crisi finanziaria del 2008.

    Secondo il Comitato Nobel “Queste intuizioni costituiscono la base delle moderne regole bancarie”. Tra cui elenca anche la garanzia governativa ai depositi dei risparmiatori, dimenticando che essa era già stata introdotta dal presidente Roosevelt negli anni Trenta, come parte della legge Glass-Steagall Act sulla separazione bancaria.

    Secondo il Comitato i risultati delle ricerche sono stati “la motivazione alla base di aspetti cruciali della politica economica durante la crisi finanziaria del 2008-2009”, e che “Bernanke fu in grado di trasformare le conoscenze della ricerca in politiche”, adottate anche durante la pandemia per evitare una crisi finanziaria globale.

    La storia ci dice che non è andata proprio così. Nel 2008 la Fed di Bernanke era più concentrata a fronteggiare il pericolo d’inflazione, che allora non era così grave, invece di capire che l’intera finanza era in tilt. I controlli non avevano funzionato, anzi, si era permessa la crescita del “sistema bancario ombra”, insieme alla speculazione più aggressiva e alla creazione di titoli e di derivati a dir poco “opachi”. La finanza era diventata egemone, in grado di influenzare le politiche nazionali e le scelte globali, istaurando anche un sistema di relazioni tossiche con la politica.

    Bernanke, già conosciuto per la sua teoria dei “dollari gettati dagli elicotteri”, operò su tre linee: un gigantesco bail out delle banche “too big to fail” in bancarotta, l’inizio dei quantitative easing e la politica del tasso d’interesse zero. A ottobre 2009 il bilancio della Fed era già salito a 2.100 miliardi di dollari dagli 870 di prima della crisi. La tanta liquidità fu incanalata soprattutto verso Wall Street, che vide un’impennata del Dow Jones.

    Tale politica è stata continuata con più forza anche dopo l’uscita di Bernanke dalla Fed, fino ai drammatici cambiamenti recessivi e inflazionistici di oggi. In conclusione, dietro il Nobel ai tre economisti sembra ci sia un invito della finanza in crisi a continuare con i salvataggi e le stesse politiche “liquide” del passato. Absit iniuria verbis per i tre Nobel, a noi, più modestamente, sembra che la grande finanza sia ancora alla base delle crisi sistemiche.

       

                      

da >>> TERZO GIORNALE *)

https://www.terzogiornale.it/

 

La pace secondo Francesco

 

La ricerca delle necessarie vie diplomatiche non va

disgiunta dal rispetto dei diritti umani

 

di Riccardo Cristiano

È della religion il fin l’ipocrisia? Rispondere di sì o di no sarebbe sciocco. Però la domanda è importante. E la visita del presidente Macron in Italia lo ha confermato: insieme con il presidente Mattarella, all’incontro di Sant’Egidio su “Il grido della pace”, Macron ha rappresentato una laicità matura nella tutela dello spazio prioritario della libertà, e quindi della riconciliazione nella libertà, così come il suo omologo italiano.

    Ha detto Macron: “La pace è solo quella che gli ucraini decideranno, quando lo decideranno. […] Oggi la pace non può essere la consacrazione della legge del più forte né il cessate il fuoco che definirebbe uno stato di fatto. Ora è il momento di parlare con il popolo russo perché non è la sua guerra”. Non è forse questo il punto mancante nel programma della manifestazione del prossimo 5 novembre, la solidarietà con il movimento russo contro la guerra?

    Macron ha manifestato una profonda sintonia con quanto papa Francesco sostiene da tempo, dicendolo a modo suo e con parole sue: “La pace è impura, profondamente, ontologicamente, perché accetta una serie di instabilità, di scomodità, che rendono però possibile questa coesistenza tra me e l’altro. […] La nostra Unione europea è questo tesoro, è questo piccolo tesoro di pace perché abbiamo deciso di costruire un equilibrio basato sulla conoscenza e la comprensione dell’altro, sull’assenza di egemonia”. Mattarella, sulla stessa lunghezza d’onda, ha detto: “La sciagurata guerra mossa dalla Russia rappresenta una sfida diretta ai valori della pace, mette ogni giorno in grave pericolo il popolo ucraino, colpisce anche il popolo russo, genera drammatiche conseguenze nel mondo intero. […] Bisogna mirare a una pace che non ignori il diritto a difendersi e non distolga lo sguardo dal dovere di prestare soccorso a un popolo aggredito”.

    Il diritto di difendersi… Quando si recò per la prima volta nella storia del suo patriarcato a Damasco, il capo della Chiesa maronita disse che la vita umana è un bene talmente prezioso che perderne anche una sola per chiedere libertà sarebbe un errore. Questa visione è profondamente diversa da quella che papa Francesco ha espresso solo pochi giorni fa, in Kazakistan, parlando con i gesuiti della provincia russa: “I governi dittatoriali sono crudeli. C’è sempre crudeltà nella dittatura. In Argentina prendevano la gente, la mettevano su un aereo e poi la buttavano nel mare”. (continua sul sito)

 

*) Terzo Giornale – La Fondazione per la critica sociale e un gruppo di amici giornalisti hanno aperto questo sito con aggiornamenti quotidiani (dal lunedì al venerdì) per fornire non un “primo” giornale su cui leggere le notizie, non un “secondo”, come si usa definire un organo di commenti e approfondimenti, ma un giornale “terzo” che intende offrire un orientamento improntato a una rigorosa selezione dei temi e degli argomenti, già “tagliata” in partenza nel senso di un socialismo ecologista. >>> vai al sito

       

               

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.collettiva.it

 

Povertà, l’anello debole della società

 

Per la Caritas quasi un decimo della popolazione è in povertà assoluta e un quarto a forte rischio. Pallone, Cgil: “Servono uno stato sociale universale e strumenti di sostegno al reddito adeguati”

 

di Roberta Lisi

 

In prevalenza vivono al Sud, ma si trovano anche nelle regioni settentrionali. Vivono in case in affitto, hanno bassi titoli di studio, in tanti e tante hanno salari bassi. Molti, troppi sono bambini e bambine. Sono i poveri assoluti del nostro Paese. E sono aumentati nonostante il Reddito di cittadinanza abbia evitato che un altro milione di cittadini e cittadine sprofondasse nella miseria.

    È il racconto di un’Italia ammalata di diseguaglianze, che si ereditano e approfondiscono. E il merito o la mancanza di esso non c’entra proprio nulla. C’entrano le condizioni economiche e sociali di una società che tardi si è assunta la responsabilità di “entrare in Europa” introducendo strumenti di contrasto a un fenomeno che ormai coinvolge un decimo della popolazione, e che oggi si vorrebbero cancellare. Invece da almeno un ventennio è stata adottata una strategia di tagli allo stato sociale, che dovrebbe essere lo strumento di redistribuzione della ricchezza prodotta dal Paese. La fotografia l’ha scattata la Caritas che in occasione della giornata internazionale di lotta alla povertà, lo scorso 17 ottobre, ha diffuso il suo ventunesimo Rapporto su povertà ed esclusione sociale.

    I numeri sono sconcertanti, dice il Rapporto: “Le famiglie in povertà assoluta risultano un milione 960mila, pari a 5.571.000 persone (il 9,4% della popolazione residente). L’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno (10% dal 9,4% del 2020) mentre scende in misura significativa al Nord, in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%). In riferimento all’età, i livelli di povertà continuano a essere inversamente proporzionali all’età: la percentuale di poveri assoluti si attesta infatti al 14,2% fra i minori (quasi 1,4 milioni bambini e i ragazzi poveri), all’11,4% fra i giovani di 18-34 anni, all’11,1% per la classe 35-64 anni e al 5,3% per gli over 65”.

    Tra le diseguaglianze che si approfondiscono, poi, ci sono anche quelle territoriali: “L’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno (10% dal 9,4% del 2020) mentre scende in misura significativa al Nord, in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%). Non bastasse, ai poveri assoluti vanno aggiunti 15 milioni di persone a rischio di povertà ed esclusione sociale. Insomma, un quarto dell’intera popolazione in condizione di grande fragilità. Lo dicevamo: sono soprattutto minori, anziani e migranti, servono misure forti e strutturali.

    Tante sono le facce della povertà. Ne esistono due, tra quelle individuate dalla Caritas, che in questi giorni fanno riflettere. “Il rischio di rimanere intrappolati in situazioni di vulnerabilità economica, per chi proviene da un contesto familiare di fragilità è di fatto molto alto. Il nesso tra condizione di vita degli assistiti e condizioni di partenza si palesa su vari fronti oltre a quello economico. Prima di tutto nell’istruzione. Le persone che vivono oggi in uno stato di povertà, nate tra il 1966 e il 1986, provengono per lo più da nuclei familiari con bassi titoli di studio, in alcuni casi senza qualifiche o addirittura analfabeti (oltre il 60% dei genitori possiede al massimo una licenza elementare). E sono proprio i figli delle persone meno istruite a interrompere gli studi prematuramente, fermandosi alla terza media e in taluni casi alla sola licenza elementare; al contrario tra i figli di persone con un titolo di laurea…”. (continua sul sito)

       

    

APPUNTAMENTO A ROMA

 

Casa della Memoria e della Storia

Sala Conferenze, Via S. Francesco di Sales 5, Roma

 

31 Ottobre ore 17.30

 

Introduce: Luca Aniasi

 

Dialogano: Ezio Mauro, Giovanni Scirocco e Andrea Ricciardi

 

EZIO MAURO – L’ANNO DEL FASCISMO

1922. Cronache della Marcia su Roma 

(Feltrinelli Editore, 2022)

Ezio Mauro racconta l’anno decisivo della frattura tra due epoche: dopo la guerra, davanti al potere declinante delle dinastie, c’è in Italia l’impeto crescente, violento, del nuovo movimento fascista. E già un potere?

 

Il fascismo giorno per giorno – In questo volume Giovanni Scirocco raccoglie le voci di coloro che, da punti di vista diversi ma sempre vicini al centro dell’azione, seguirono l’ascesa di Mussolini e dei suoi.

 

A cura della FIAP

Federazione Italiana Associazioni Partigiane

   

    

Da Avanti! online

www.avantionline.it/

 

PIEDI DI PIOMBINO

 

Oggi a Piombino iniziano le procedure per garantire nuove forniture di gas dall’anno prossimo. Primo atto di FdI alla nascita del governo Meloni: il ricorso al TAR del sindaco meloniano…

 

di Maria Teresa Olivieri 

 

La vera novità del Governo Meloni è che nasce con uno screzio interno al Partito di Governo, un atto del Governo precedente e l’appoggio del Partito di opposizione su una decisione locale. Tutto questo avviene con il rigassificatore di Piombino.

    Tutta colpa della guerra, forse, che ha costretto il Paese a farsi i conti in tasca con la propria sovranità energetica, ma fatto sta che nonostante si trovi all’alba del decisionismo della XIX legislatura, il rigassificatore è ‘figlio’ del Governo tecnico di Mario Draghi.

    Nella sua ultima conferenza stampa in settembre l’ex premier Draghi aveva usato parole impegnative, quasi a indicare la strada al futuro governo: “Il rigassificatore di Piombino è essenziale. È una questione di sicurezza nazionale”. È vero c’è stata la Conferenza dei servizi della Toscana che ha espresso “parere favorevole con prescrizioni”, quindi un esito positivo, per la collocazione della nave rigassificatrice a Piombino.

    Ma tocca ribadire che il sì della Conferenza dei servizi è, in qualche modo, un successo postumo del governo Draghi.

    A rimarcare l’anomalia anche l’appoggio del Governatore della Toscana del Partito che ha giurato ferma opposizione a Giorgia Meloni, il Partito democratico. Il presidente della Regione Eugenio Giani, in veste di commissario straordinario del Governo, ieri ha firmato l’autorizzazione all’installazione del rigassificatore che resterà nel porto di Piombino tre anni.

    Il presidente ha voluto ribadire l’interesse pubblico che tutto questo significa: “Per 60 milioni di italiani vuol dire l’abbassamento delle bollette, la possibilità di offrire un servizio, la possibilità di dire che il gas è qualcosa che si può avere in Italia con più facilità, senza dipendere dalla Russia. Il mio principale motivo nello svolgere questa funzione è il servizio a 60 milioni di italiani e, questa mattina, sono soddisfatto, perché sento che a 60 milioni di italiani che soffrono per l’aumento delle bollette, alle imprese che rischiano la chiusura, noi abbiamo fatto un servizio positivo”.

    Tuttavia non la pensa così il primo cittadino Francesco Ferrari, del partito di FdI, secondo cui la firma dell’autorizzazione alla realizzazione dell’opera fin da subito era per “concedere l’autorizzazione, non a valutare la fattibilità dell’opera, e non ha tenuto conto delle enormi criticità che il Comune di Piombino ha sollevato”.

    Ed è da qui che parte per ribadire la ferma opposizione del Comune – e del territorio – al progetto Snam proposto dal governo e sposato dalla Regione, con la conferma di voler “impugnare l’autorizzazione di fronte al Tar. Lo avevamo detto e lo faremo”.

    Il Primo Cittadino annuncia battaglia: “Il percorso amministrativo, così come impostato dal commissario straordinario Giani – aggiunge – è stato proiettato fin da subito a concedere l’autorizzazione, non a valutare la fattibilità dell’opera, e non ha tenuto conto delle enormi criticità che il Comune di Piombino ha sollevato. Inoltre, lo ha addirittura voluto blindare attraverso l’intesa Stato Regione, un atto prettamente politico. Il decreto che disciplina l’iter burocratico parla chiaro: il governo propone l’opera e la Regione si fa garante del territorio chiedendo anche un parere alla Provincia e al Comune. Il parere del Comune è stato ovviamente negativo ma Eugenio Giani, questa volta in qualità di presidente della Regione, ha comunque firmato l’intesa”. E sul memorandum: “un documento che sembra più un tentativo di lavarsi la coscienza che uno strumento concreto per il rilancio del territorio. Quel documento è una lista di richieste vuota e lontana dalle reali esigenze”.

    In realtà la decisione di Giani ha spaccato in Estate il partito di Meloni, con anche il deputato livornese, Fabrizio Rossi, sempre di FdI, totalmente in disaccordo con Cingolani. ma il vero problema è che contro il rigassificatore è il suo braccio destro e cognato: Francesco Lollobrigida, per il quale si tratta di una questione di principio e nella città di Piombino, che FdI amministra col suo sindaco Francesco Ferrari, “non possiamo rimangiarci la promessa che abbiamo fatto alla nostra gente”. Di più, “non possiamo esordire al governo con un cedimento”.

       

                          

L’Avvenire dei lavoratori – Voci su Wikipedia :

(ADL in italiano) https://it.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_lavoratori

(ADL in inglese) https://en.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_Lavoratori

(ADL in spagnolo) https://es.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_Lavoratori

(Coopi in italiano) http://it.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo

(Coopi in inglese) http://en.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo

(Coopi in tedesco) http://de.wikipedia.org/wiki/Cooperativa_italiana

 

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UNA LETTERA APERTA

 

ai compagni del PD

 

Sono trent’anni che il Pci si è sciolto e noto che, nella vostra evoluzione a forme diverse di organizzazione politica ulteriori, avete perso quell’anima sociale che ci permetteva un dialogo, anche aspro, sulle soluzioni da dare alle questioni sociali perché entrambi – socialisti e comunisti – ne riconoscevamo la necessità di affrontare tali problematiche.

    Non avendo realizzato una vera Bad Godesberg, ora vi ritrovate, dopo trent’anni, al punto di partenza. Avete cambiato nomi, segretari e alleanze ma la sostanza culturale è sempre la stessa, sia quella cattocomunista e giustizialista come logica conseguenza evolutiva dell’ultimo periodo Berlingueriano, quando il segretario del Pci sollevò in modo ipocrita la falsa questione morale (non che questo problema non esista!) che in realtà riproponeva in modo diverso il doppiopesismo di Togliattiana memoria.

    L’altro aspetto è quella presunta “superiorità morale” che fa considerare l’appartenenza al partito una sorta di eccellenza antropologica. Per quanti siano i nomi cambiati e i matrimoni politici consumati, questo aspetto continua a produrre danni a voi, che sono poi anche danni sociali nel Paese, in quanto esso favorisce una cultura manichea. E il manicheismo, nel suo combinato disposto tra leggi elettorali maggioritaria e mass media, si sta diffondendo come un virus letale per la democrazia.

    Alcuni di questi media, in particolare quelli legati al capitalismo famigliare italiano, che sopravvivono grazie alle prebende dello stato e non alle loro capacità imprenditoriali, sono ormai anni che interferiscono nella vita del vostro partito, a conferma di una rottura con quel legame con i ceti popolari, esasperando il contrasto tra giustizia sociale e diritti civili, a scapito della giustizia sociale, per una politica dei diritti di natura ideologica.

    Oggi dopo la sconfitta elettorale del 25 settembre avete aperto un periodo di riflessione, come di norma fanno i partiti seri. Vi porterà al congresso. Ascoltando su Radio Radicale gli interventi della vostra direzione non si può negare un dibattito a più voci con una forte senso di messa in discussione. Comunità, identità, rinnovamento del gruppo dirigente, alleanze, legge elettorale responsabile della sconfitta, nuova legge elettorale, pacifismo, guerra, caro energia etc.: tutti temi trattati nei vari interventi, anche con critiche aspre al partito e alle sue alleanze.

    Ci sono due aspetti, a mio parere, estremamente negativi che nel dibattito non sono stati messi a fuoco.

    Il primo aspetto riguarda la responsabilità della sconfitta, attribuita da alcuni di voi agli elettori, i quali non avrebbero capito il Pd. Pensare che quando si perde è colpa degli elettori vuol dire non mettere in discussione la qualità del messaggio, i contenuti e la proposta politica, il modo in cui si manifestano i propri valori di riferimento. Di norma in politica bisogna avere il coraggio di fare proprio il motto che dice: “l’elettore ha sempre ragione”.  L’elettore valuta il rapporto tra ciò che si dichiara e ciò che si fa o non si fa, può piacere o no ma oggi il PD viene percepito come il partito dei ceti agiati, che non difende il mondo del lavoro: il partito degli affari, il partito che predica il bene comune, ma poi i servizi pubblici dimostrano l’opposto, il partito che si professa liberale e Keynesiano, ma privatizza ai soliti noti.

    Beninteso: io non credo che ciò sia tutto vero, ma questa è la percezione con cui bisogna fare i conti.

    L’altro aspetto è la narrativa sulla sinistra e il potere. Che cos’è la sinistra? Un luogo? Un modo di essere? O la sinistra è un insieme di valori?

    Certamente la sinistra dovrebbe collegarsi con dei valori, ma i valori non sono una esclusività di uno schieramento, i valori sono il cemento di una comunità e di un Paese. La differenza può esistere nel modo di calibrarli. La libertà è un valore, ma esso può essere concepito in modo diverso, tra chi ad esempio crede che l’individuo debba solo rispettare le libertà che lo stato gli concede e chi concepisce la libertà come il diritto di fare tutto ciò che più gli aggrada.

    Ma quando la libertà viene concepita agli estremi, essa perde la natura che unisce e diventa divisiva perché si trasforma in ideologia. Non a caso in Europa coloro che rappresentano la sinistra si chiamano socialisti o socialdemocratici, movimenti politici e valoriali. Hanno abiurato alle ideologie che sono state il dramma e l’orrore del Novecento.

    Lo stesso meccanismo psicologico vale per il potere. È normale che i partiti lottano per il potere ed esso non è né buono né cattivo ma dipende da come viene usato dagli esseri umani. I partiti dovrebbero usarlo per realizzare le loro visioni valoriali, ma se queste diventano gretto interesse o ideologia, il potere si trasforma o in forme illiberali fine a se stesse o in autoritarismo volto a realizzare una visione particolare.

    Oggi il Pd si trova a dover fare delle scelte che non sono automaticamente risolvibili con un cambio di nome o di segretario, ma richiedono una profonda rivoluzione culturale. Certamente, oggi qualunque riflessione deve saper cogliere le contraddizioni che emergono dalla nuova rivoluzione dell’economia digitale. Ma deve scegliere anche le sue radici valoriali con cui affrontare la lettura della società e proporre proposte e soluzioni.

    Le radici sono quelle del socialismo umanista della tradizione riformista, che coniuga diritti a responsabilità, che espelle dal suo seno le ideologie, ma riesce a cogliere in modo laico i contributi dei vari pensatori del secolo scorso da Turati a Gramsci da Roselli a Don Milani, da Proudhon a Craxi.

     Insomma, la strada maestra è il socialismo democratico per rappresentare una sinistra laica e non ideologica.

    Per me portare un garofano ad Hammamet è fare una scelta di campo, forse non un “campo largo”, ma certamente coerente con le persone che lavoreranno per realizzare, insieme, una società più giusta.

    Infine, per un ritorno alla politica con la P maiuscola, consiglierei: 1) Un ripristino del finanziamento pubblico e regole trasparenti per i privati, perché la democrazia costa. 2) Ritorno al proporzionale puro al primo turno e maggioritario al secondo, con elezione diretta del premier o del presidente: così si coniuga partecipazione e governabilità.

 

Roberto Giuliano, Roma

       

    

una LETTERa da destrA

 

la cosiddetta sinistra!

 

Nell’ADL scorso si parlava del leghista Fontana «al quale tutti i “diversi”, omosessuali e femministe pro choice incluse/i, “fanno schifo”». Su ciò un lettore di destra ci ha scritto il seguente commento:

   

Con la proposta Zan – di dare la precedenza nel lavoro, non solo alle quote rosa, ma anche alla variegata comunità LGBT, – il lavoratore con famiglia regolare lo prende nel c…o obbligatoriamente per legge. Meditate gente, meditate sulla cosiddetta sinistra! 

(lettera firmata)

 

 

LA RISPOSTA DELL’ADL – Nel DDL Zan non c’è quel che dice lei. Ma a Bologna una lapide triangolare rivolge questo ricordo: “Alle vittime omosessuali del razzismo nazifascista. 25 Aprile 1990. 45° Anniversario della Liberazione”.

       

 

L’Avvenire dei lavoratori

EDITRICE SOCIALISTA FONDATA NEL 1897

 

L’Avvenire dei lavoratori è parte della Società Cooperativa Italiana Zurigo, storico istituto che opera in emigra­zione senza fini di lucro e che nel triennio 1941-1944 fu sede del “Centro estero socialista”. Fondato nel 1897 dalla federazione estera del Partito Socialista Italiano e dall’Unione Sindacale Svizzera come organo di stampa per le nascenti organizzazioni operaie all’estero, L’ADL ha preso parte attiva al movimento pacifista durante la Prima guerra mon­diale; durante il ventennio fascista ha ospitato in co-edizione l’Avanti! garantendo la stampa e la distribuzione dei materiali elaborati dal Centro estero socialista in opposizione alla dittatura e a sostegno della Resistenza. Nel secondo Dopoguerra L’ADL ha iniziato una nuova, lunga battaglia per l’integrazione dei mi­gran­ti, contro la xenofobia e per la dignità della persona umana. Dal 1996, in controtendenza rispetto all’eclissi della sinistra italiana, diamo il nostro contributo alla salvaguardia di un patrimonio ideale che appar­tiene a tutti.

 

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